Alba Gnazi Le parole sono una chiave e un ponte, un codice privilegiato e misterioso, un canto: leggo da quando ne ho memoria. Ancorata alla Musica, trattengo chimere sotto le unghie e mi ricompongo nella luccicanza di gioie minute, a metà tra il surreale e la strada. E di vagare non smetto.
Eravamo a cena in un locale in cui fanno un'ottima pizza, hai presente la pizza di tipo napoletano, coi bordi alti e il condimento distribuito con sapienza e gusto estetico?, ecco, una cosa che sparge benessere a cominciare dall'idea; locale senza pretese, coi tavoli in ferro battuto e le tovaglie di carta, con il proprietario che passa a chiedere come va col sorriso tra le mani.
Insieme alla birra ghiacciata e ai dialetti leggeri mischiati tra facce e soffitto, scivolava lungo il collo la musica dell'amata, bellissima Napoli proveniente da casse infilate tra i quadri e le foto- le foto di Troisi e di Totò, di Pulcinella e del golfo; le foto della pizza e degli spaghetti: tra una chiacchiera e una risata brevi unghiate di nostalgia simile al vento nero dei marciapiedi fuori, dove il riflesso dell'insegna veniva inghiottito dal ringhio del mare, del faro che ondeggiava tra i tetti chiamando Casa - e noi ancora lì dentro, a circondarci di noi stessi.
Il cibo è vicinanza, festa e ricordo. Un'eccellente scusa per smettere distanze.
Gli spaghetti, così veloci a cuocere e versatili, sono amati ovunque: da sempre.
Io li amo particolarmente.
Me li concedo scolati al dente e con un filo d'olio, o con una salsa leggera al basilico.
Gli spaghetti sono arte e poesia.
I eat spaghetti, they eat spaghetti, we all eat spaghetti.
Risveglio di nebbie sulle sabbie di Tirrenia. Muto e assonnato passo d'alba tra controluci che m' asciugano il sonno. In ascolto del mare nascosto, lo intuisco con la frenesia degli amanti; ne annuso l'assenza con vibrisse feline. Fremono gli occhi. L'inverno spiga da un autunno febbricitante. Sulle plaghe gli aironi a eserciti, a sciami, planano e si posano, quasi fossero molliche d'aria e piume, con una zampa nelle pozze e il becco al vento. (Avrò voce nella voce?) Ma è il solstizio, e ho pantofole d'inverno, e ho sempre qualcosa da fare nei miei qualcosa da fare. Incorro in tutti i frastuoni di domenicali facce e giacche e nasi e auguri. Vorrei tacere talvolta ma non oso. Incorro in me e per non parlarmi troppo addosso chiudo libri e specchi. (Vorrei tacere anche adesso ma non oso.) Il solstizio mette pantofole all'inverno, tra le nebbie e le sabbie di Tirrenia.
G. Courbet, Le onde
Vedi. La voce è un messaggio e un'offerta. Mi offro : prendimi, dice la voce. Come la poesia. Quando la si legge, poi diventa nostra. Diventa mia, diventa tua. Oggi avevo una poesia per un bimbo triste. Oggi avevo una voce per una donna in guerra, e di guerra stanca, come direbbe Amado. Oggi avevo così tante zolle tra le mani da dovermi mettere seduta. Invece ho sbadigliato ridendo. E le zolle hanno sgretolato via le necessità dalle mie braccia. Ho cantato per i punti sospesi in gola, per un bambino in guerra , per una donna triste. [You. Mon semblable. Così simile da essermi sorella. O io. ]
Paola Pittori, Donna senso e sacralità
Crediamo che ci manchi. Sempre qualcosa. Il tempo. La voglia. Le occasioni. La fantasia. Una marcia in più. Quella conoscenza. L'aspetto giusto. La voce adatta. La firma leggibile. La capacità di sintesi. I soldi. Lo spazio. Un libro. Le sigarette. Il telefono. Lei. Lui. ............................................Levità. Metti i piedi nell'acqua. Infilati nel caldo. Spostati nella Musica. ............................................ Levità. Conquista il silenzio delle mani e del corpo. Toccati le mani, toccati il viso, toccati il corpo. (Sei tu.) Toccane il silenzio, la voce zitta, la voce che tace, la voce che ora riposa. Lieve di levità e silenzioso corpo, lì, dove sei Musica e niente ti manca. nessuno ti manca. (Lieve)
Il ricordo non paga. Stimola aspettative e formula inganni. Ne prevengo la forza con annegamenti nel presente. Infuria però tra le serrande dei miei alibi col sibilo di altri alibi. Di caldissime puerili seduzioni. Mi affascina con istanti di odore. Mi precede, mi forma. Quel che ignoro è perché si ostini a imporsi sulle mie realtà con accenti che spesso mi gelano. Ne avrò bisogno, in un qui per cui adesso non c'è posto. In una me che ha decostruito per ricostruire senza indugi. Bisogna viaggiarsi via, di tanto in tanto. Dai sé che non esistono. Dai mondi che non esistono. Forse più - forse mai. E che azzannano come le mosche durante la siesta, in pieno sole, che resta a guardare e non difende. Alba Gnazi Dicembre 2014
Che si festeggi il natale, è un fatto assodato.
Odore di legna e di nebbia.
I risvegli sembrano sempre quelli.
Che si festeggi il natale va pure bene.
Che se ne ricordi la forma intatta di quando l'albero era un portale, il camino una galleria, il rosso una promessa, la mamma misteriosa e un incanto la tele accesa: va bene. Va bene.
La notte di lontani ventiquattro dicembre : una costola d'ansia e magia stretta sotto alle palpebre, col cuore tra orecchio e cuscino: per ascoltare.
Che il natale sia anche il ricordo è normale.
Dei figli che frugavano tra i pacchetti; di quella volta che l'albero cadde, di quella volta che pioveva così forte, di quella volta che all'ultimo qualcuno disdisse, di quella volta (sempre, credimi: sempre) che i grandi sono più capricciosi dei piccoli; di quella volta che babbo natale s'era ricordato di regalare solo una nostalgia bruciante tra i fianchi e sulla nuca; di tutti quegli anni e anni e anni che la musica è stata la salvezza da una voglia di scappare così devastante - e come nessuno se ne fosse mai accorto resta un arcano.
Che il natale sia un giorno qualsiasi, è ovvio.
Dismessi i campanelli da battaglia, coi figli che non guardano più sotto l'albero ormai da un pezzo, coi figli che guardano altrove - è così che va; il natale è il compleanno di qualcuno che non esiste, di babbo natale o di un piccolo dio tra tanti piccoli dei; non mi sorprende il bisogno di credere, quel che mi sorprende è la credulità.
Che il natale faccia girare l'economia, è un fatto certo.
Apparecchio la tavola per tanti quanti siamo.
Il bello del natale è che non aspetto niente, tranne di vedere volti e odorare profumi di pelli e abiti che riconosco, che mi assicurano come certe cose restino ferme.
Che il natale sia immobile, è dimostrato.
Che se ne parli troppo, è scontato.
Che sia cruccio e spesa, è voluto.
Potrebbe chiamarsi natale, hanukkah, fine del ramadan, imbolc. Cosa conta.
Cosa conta.
Forse questa festa, come ogni festa, serve a rimettere a posto e vicine cose e persone.
Forse non serve proprio a niente: ché in effetti non si deve aspettare il natale ( o qualsiasi altra festa) per dire a qualcuno che è importante, per stare intorno a un tavolo e guardarsi negli occhi, condividere un pasto, raccontarsi un po'. Va da sé. Va da sé?
Che il natale sia inutile, è fuori moda chiederlo.
Che il natale sia al di là di ogni moda, è risaputo.
Che del natale si amino il clima e il calore, è comune e noto.
Che io provi una indifferenza definitiva e asintomatica a tutto ciò che è natale, è quasi inconfessabile.
Che poi, ogni volta che uno dei miei bimbi a scuola, prima delle vacanze, mi regala un biglietto trafitto di cuori e affetto io abbia voglia di piangere, è quasi noioso e sembra artefatto.
Ho conservato centinaia di cuori trafitti e faccine tese al mio abbraccio.
Non foss'altro che per questo, il natale a qualcosa serve.
L'ascia che rompe il mare ghiacciato, per dirla con Kafka, non è sempre e solo un libro.
Che il natale sia un'ascia o un mare ghiacciato, è a seconda e su misura.
Posso pensarci ancora un po' su?
Devo pensarci ancora un po' su.
un dormitorio d'erba dove tutto è quieto dove non esiste più rumore
o forse è un fiume blu di riflessi con intorno lampade come fiori con la riva macchiata di passi quiescenti un sentiero di rane.
Hanno detto a me che non scrivo più di acchiappare uno smeraldo tra gli alberi la foglia fissa che ti osserva in sogno e di scriverne senza pensarci su senza afferrarne i lembi senza torcerla o marcirla nell'acqua stagnante di quel che dico o che faccio.
Ma io, che non so più scrivere con il coraggio che devo ho soffiato tra una radice e l'altra ho visto l'occhio azzurro freddissimo della fata bianca e ho preferito la valle la sua erba sollevata da ciò che resta di bello nel continuare a sognarla.
Dentro la notte nera sono timida cosa - ho replicato - preferisco spaccare il vetro e tentare con la mano ciondolante di toccare la punta portare le dita al naso e sentire tutti i profumi della terra che resiste.
Oscuro Mostri nel cuore Terre maligne Più gonfie di un altare, Borghi sfatti Di alimentati idoli morti Senza pause, Un'eco ostile di vuoti e salmi In prossimità del mare. In mano cenci a tergere lo sguardo.
Maurizio Vinanti vive e opera a Firenze. L'ho ''scoperto'' mesi fa mentre, in cerca di un'immagine da unire a un pezzo presente qui sul blog, sfogliavo pagine e pagine del web: sono rimasta colpita dalle sue modalità espressive, così ho fatto delle ricerche, che mi hanno condotta al mondo vasto, pieno, per certi versi fanciullesco, per altri estremamente malinconico e disincantato, della sua Arte. Ho avuto modo di contattare Maurizio: il quale ha accolto la richiesta di una selezione di opere per Charlot. Non ho seguito un tema, nella scelta dei soggetti: solo le sensazioni visive, i richiami e i rimandi a esigenze d'armonia e colore che ho avvertito. Ho seguito, nella scelta, un ''poetare'' artistico che, a mio parere, accoglie voci e suoni di ogni tempo, che coniuga espressioni e impressioni differenti - non tralasciando un'ironia piacevole e arguta - sintomo e frutto della partecipazione al presente e alle sue innumerevoli sfaccettature, dell'osservazione acuta dei tempi e dei modi dell'umano agire, di una volontà di spiegazione che non accoglie recinti né definizioni conclusive e respinge, confinandole nei colori e nei tratti sognanti dei soggetti e dei luoghi, paure, mortificazioni, distanze e assenze.